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Scrutando un oscuro orizzonte di Monica Zornetta
Prefazione del libro "Nella pancia del mostro" Nella pancia del mostro non c’è posto per gli incubi… tutto, lì, è tremendamente reale. Il sangue bollente inonda le vene, sbatte con furia contro le pareti, porta frenetico ossigeno e nutrimenti alle sue cellule. Lì dentro la vita s'intreccia strettamente con la morte, la santità con la dannazione, la passione con l’abominio.
Avevamo lasciato Nicola a Treviso, poco prima della partenza. Il cuore, allora, batteva veloce, potente: sembrava spaccargli quella robusta gabbia toracica da ex rugbista. Sentiva di avere un fuoco nel petto. E nella poesia che concludeva la precedente raccolta, “Partenze”, riusciva perfino ad afferrarlo, quel cuore, per spiegare all’amato figlio la propria scelta di andarsene. Doveva farlo. Doveva partire per non morire... anche se lo sapeva che avrebbe dovuto assaporare, in ogni caso, il sofferto gusto del trapasso. Per rinascere.
E lo ritroviamo adesso nella pancia del mostro. In Messico. In quell’Heroica Matamoros che un paio di secoli fa aveva respinto con onore l’esercito americano. “Entrando in città dal ponte vecchio / tutto si trasforma in polvere. / Alle spalle rimane il Rio Bravo / sornione scolo di morte / pluviale di membra. / In questa landa di frontiera / tappezzata di costruzioni / ci sono buche nelle strade / dove rospi si riproducono / e scappano”. Percorrendo quelle strade fatiscenti, attraversando i cortili storditi, varcando le soglie di povere case ammantate di misteri e di eccitazioni, discendendo nella brulicante profondità di colonie affollate e malfamate, l’autore vive, ricorda, immagina. “Messico! / Ombligo schiacciato / dalla testa anabolizzata / tra fianchi molli / e un pene minore”. E lasciando che il flusso della coscienza percorra e ripercorra fino allo stremo il suo indicibile labirinto, compone le cinquantanove brevissime cronache (o visioni) poetiche che danno vita a questo libro. Non ci sono titoli, qui, ma numeri, non c’è posto per la tenerezza, ma per sentimenti turpi e rabbiosi che sfumano in coscienze perdute davanti ai tiri mancini dell’amore. E che piegano in due dal dolore. Le pagine sono impregnate di colori. Di immagini. E di odori. Del sangue, del sesso, della polvere, del tabacco, l’odore dei veleni nascosti negli scarichi delle jeep, dei cibi speziati, della carnita asada e della cipolla, dell’umidità annidata dentro vecchi armadi di legno, di vini europei sputati a terra e dei fiori provocanti e crudeli che sbocciano nei verdi giardini di questa città dura e tormentata. “Smembrano da queste parti. / Vendevano pelle d’uomo gli aztechi: continua a dar frutti la macelleria messicana. / Così / quando sbaglia il passo / l’individuo che t’affianca / son disposti / per rivalsa / a tritar pure bambini […] Son venuti di notte / han divelto serrature con armi pesanti. / Uomini / donne / vecchi e bambini / spariti nel nulla / ora / sono sussurri nell’alveare.”. Nella pancia del mostro non si può abbassare la guardia. Mai. Men che meno quando il sole muore, perché “all’imbrunire / si comincia pure a sentire botti. / Dicono sia una colonia malfamata la Doctores / e quei botti assordanti li chiamano giochetti. / A Matamoros Tamaulipas / le chiamano granate. / In effetti / hanno un altro suono / più sordo / più fragoroso / più caldo.”. In Messico il problema è l’altro, scrive Nicola, perché l’ALTRO, il famigliare o l’amico, potrebbe custodire verità violente. Ecco che la macelleria è sempre in funzione, qui. Ma è proprio dentro questo spazio, in questa realtà dalla lunga anima – così lunga da avvolgersi come una spirale nella propria storia, nata ben prima della conquista spagnola - che l’autore ritrova sé stesso. “Sono ancora vivo / il che / oggi / m’è sembrato/ incredibile. / Son passati / pochi anni / da quando sono nato / da quando mi tolsero / quel cordone insanguinato / stretto al collo / oggi / però / parevan secoli.”.
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